Sostenibilità? Warning! Maneggiare con cura
di Alessandro Carretta, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari nell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, consigliere NED Community; Davide Carretta, avvocato in Milano, LL.M. (Fordham)
Sostenibilità ci appare oggi come la parola d’ordine imprescindibile in ogni dichiarazione ed analisi di comportamenti presenti e futuri di imprese, istituzioni, comunità, paesi. Nei documenti programmatici di Ursula von der Leyen e di Giuseppe Conte i riferimenti all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile sono ampi e diffusi. Mentre sogniamo un mondo dove la qualificazione “sostenibile” non sia necessaria (quale impresa vorrebbe infatti perseguire una strategia di sviluppo insostenibile? E quale policy maker adotterebbe mai linee di azione non sostenibili?), lottiamo contro luoghi comuni e fake news della sostenibilità, che ne ostacolano la diffusione (e quindi allontanano il momento in cui finalmente non ne parleremo più così tanto…). Eccone tre, discussi brevemente nella duplice prospettiva economico-aziendale e giuridica.
La sostenibilità? Bellissima! Ma noi non possiamo permettercela. Chi ne sosterrebbe i costi?
In una prospettiva economico-aziendale, la sostenibilità appare perfettamente compatibile con gli obiettivi dell’impresa. L’assunzione di una stakeholder view consente di ridurre drasticamente il trade-off tra sostenibilità e profitto. Ambiente, persone, società sono interlocutori importanti e imprescindibili per le imprese e tenere conto delle loro esigenze può contribuire, in un orizzonte temporale adeguato, alla creazione di valore aziendale. I pericoli maggiori? Shortermismo e green washing. Incentivi e accountability per depotenziarli.
Indipendentemente dall’esistenza di vincoli cogenti, le imprese sono sempre più consapevoli del fatto che la sostenibilità è elemento imprescindibile della strategia d’impresa e può creare vantaggi economici e finanziari significativi. Da un punto di vista giuridico, nel nostro ordinamento, la sostenibilità è peraltro tendenzialmente compatibile sia con un modello di stakeholder governance – che risulta davvero efficace se caratterizzato da scelte eticamente e socialmente apprezzabili e, al contempo, profittevoli per l’azienda – sia in un’ottica di shareholder value, nell’ambito della quale la sostenibilità, anche se “costa”, può – e secondo molti deve – rientrare nel business judgment degli amministratori se crea valore nel lungo termine. Non va dimenticata, inoltre, l’importanza cruciale di un adeguato engagement degli investitori istituzionali sulle politiche di sostenibilità di lungo termine delle società partecipate e l’interesse che un’impresa sostenibile può rivestire per le banche finanziatrici, ad esempio nell’ambito di una corretta valutazione del merito di credito.
Misurare la sostenibilità è inutile e praticamente impossibile. L’impatto è troppo ampio e molti effetti sono indefiniti. La sostenibilità è più che altro un principio generale a cui dobbiamo cercare nei limiti del possibile di aderire
La teoria e le buone pratiche di management sottolineano con forza che la misurazione è la premessa per orientare i comportamenti delle persone e delle organizzazioni. “If you can’t measure it, you can’t improve it” (Peter Drucker). Misurare la sostenibilità è dunque fondamentale ed è possibile, attraverso indicatori adeguati. Come nel caso della misurazione delle performance aziendali tradizionali occorre poter contare su una base dati affidabile ed evitare di affidarsi ciecamente solo ad alcune isolate misure simbolo, ma piuttosto progettare un sistema di indicatori tra loro correlati per acquisire e governare una visione di insieme delle performance. La misurazione della sostenibilità è certamente impegnativa e può condurre ad aspettative non soddisfatte. Ecco perché spesso ci si accontenta di affermazioni generali, senza entrare nel dettaglio. La stessa Commissione europea, nel condividere il principio della sostenibilità degli investimenti nel quadro della Capital Market Union (marzo 2019), rinvia alla fine del 2021 il tema della tassonomia della sostenibilità, con riferimento al profilo sociale degli investimenti.
Anche dal punto di vista giuridico, tradizionalmente l’adozione del bilancio c.d. “di sostenibilità” sconta margini di discrezionalità più rilevanti rispetto all’informativa finanziaria e al bilancio d’esercizio, dovuti alla genericità delle classificazioni delle informazioni non finanziarie e degli indicatori chiave operate in passato dal legislatore europeo, nonché alla non efficace modalità di esecuzione dei controlli operata in molti casi dalle imprese.Tale situazione è in parte mutata con l’entrata in vigore della direttiva 2014/95/UE, recepita in Italia con il d.lgs. 254/2016, con il quale è stato introdotto nel nostro ordinamento un vero e proprio obbligo di monitoraggio e di reporting di carattere non finanziario in alcuni ambiti tassativamente previsti dal legislatore (in particolare in materia ambientale, sociale, di risorse umane, diritti umani e di lotta alla corruzione) per alcune tipologie di imprese (banche comprese), aventi determinati requisiti reddituali, patrimoniali e dimensionali. La dichiarazione non finanziaria (DNF) definisce indicatori di prestazione su fattori di sostenibilità efficaci e analitici, operando inoltre un’integrazione delle informazioni qualitative con quelle quantitative, secondo un approccio complementare tra informazioni finanziarie e non finanziarie. La DNF consente pertanto al mercato di valutare il percorso delle imprese verso la sostenibilità nel medio-lungo termine e stimola le medesime a definire, gestire e monitorare i processi di gestione dei rischi attinenti la sostenibilità. In tal senso, è importante che, in prospettiva, le imprese agiscano nell’espletamento delle attività connesse alla DNF non solo in un’ottica di compliance, ma con l’obiettivo di iniziare un processo di trasformazione che riguardi business, strategia e governance.
La corporate governance è fondamentale per cambiare il modo con il quale le imprese sono gestite e deve essere il motore principale di un’economia sostenibile. I consigli di amministrazione, attori chiave per la sostenibilità, devono essere orientati da un framework europeo unitario
La diffusione di principi e comportamenti orientati alla sostenibilità richiede un approccio sistemico, che coinvolga anche il policy maker, gli azionisti, gli investitori ed il management. La governance è importante ma non può essere la soluzione di tutti i problemi. La politica può fare molto, delimitando il playing field nel quale le aziende affrontano la sostenibilità ma senza introdurre vincoli eccessivi. I cda non possono diventare organi di mero controllo della sostenibilità, soprattutto nel caso delle banche dove già l’impegno del board sulla compliance è particolarmente gravoso. In ogni caso un approccio unitario alla governance a livello europeo risulta attualmente poco convincente: ogni paese ha le proprie specificità che vanno preservate. Il ruolo del management è fondamentale: il board si riunisce, nel migliore dei casi, qualche decina di volte l’anno ma sono i manager che con continuità possono dare tone&touch alla sostenibilità in azienda.
Il d.lgs. 254/2016 presuppone, peraltro, proprio una trasformazione di tipo culturale dei modelli di corporate governance. La rendicontazione delle informazioni non finanziarie e la governance della sostenibilità possono infatti favorire l’integrazione dei fattori ESG in numerose aree dell’attività aziendale, come ad esempio le decisioni strategiche di lungo periodo, le sinergie tra elementi finanziari e non finanziari negli strumenti di rendicontazione, il coinvolgimento degli stakeholder nell’analisi di materialità e l’inclusione dei rischi non finanziari nell’analisi dei rischi. In tale ambito, quindi, il cda ha comunque un ruolo centrale nella predisposizione, redazione e approvazione della DNF (art. 3, comma 7 del decreto) ed è fondamentale, ad esempio, che esistano adeguate procedure di selezione di componenti dei board con comprovate competenze tecniche anche in materia di sostenibilità. Un framework europeo unitario – che comunque tenga conto delle peculiarità dei singoli ordinamenti e dell’efficacia ed effettività delle misure sino ad oggi adottate – potrebbe favorire un’applicazione integrata ed efficace delle norme e delle best practice in materia di sostenibilità, nonché il loro miglioramento.
I temi suddetti non esauriscono naturalmente il dibattito sulla sostenibilità, che riguarda molti altri fronti e problemi aperti. Si pensi, ad esempio, nel caso delle banche, alla necessità di contemperare – e non è così scontato – l’esigenza della sostenibilità con la cosiddetta viability del modello di business, oggetto dell’attenzione da parte dei supervisori (che sono ormai veri e propri stakeholder della banca); per tutte le imprese, all’individuazione delle politiche e degli strumenti idonei a promuovere ed incrementare le prassi che riguardano la sostenibilità e di mezzi di tutela, davvero efficaci, nei confronti delle imprese in caso di violazione delle norme poste a presidio della sostenibilità, della reale efficacia delle prassi sostenibili nell’economia di mercato e del loro contributo al benessere collettivo.